Edvard Munch è famoso in tutto il mondo per un quadro che tutti conoscono: L’urlo. Non è un caso che sia anche uno dei dipinto più quotati al mondo (venduto nel 2012 per 119,9 milioni di dollari). Ma come mai questo quadro riscuote tale successo sia tra gli appassionati d’arte che tra le persone comuni?
Forse la risposta va cercata al di là di ciò che i nostri occhi vedono. L’urlo fa vibrare delle corde profondissime del nostro essere a cui, nella vita quotidiana, diamo poco ascolto. È l’emblema della disperazione e del male di vivere, ma oltre a questo il suo vero valore è farci sentire tutti un po’ più umani in una sorta di comunanza di destino.
Munch descrive così la genesi della sua opera << Una sera passeggiavo per un sentiero, da una parte stava la città e sotto di me il fiordo. Il sole stava tramontando, le nuvole erano tinte di rosso sangue. Ho sentito un urlo attraversare la natura. Ho dipinto questo quadro, ho dipinto le nuvole come sangue vero. I colori stavano urlando>>. L’arte per Munch è un viaggio tra ciò che l’occhio vede e ciò che la mente sente.
Per godere appieno di quest’opera è però fondamentale conoscere anche la storia del suo creatore.
La vita di Edvard Munch è una storia di grande tristezza e molti traumi, ma è anche una storia di importanti risorse personali che lo hanno portato a dare un senso alla sua vita. Egli narra, attraverso i suoi quadri, la sua tristezza e le vicende che l’hanno creata in uno sforzo continuo di rileggere e dare nuovi significati a ciò che ha vissuto.
Munch incontra il dolore della perdita molto giovane. All’età di 5 anni assiste, insieme alla sorella maggiore Sophie, alla morte della madre causata dalla tubercolosi. Questa scena rimarrà impressa nella memoria del pittore per tutta la vita. Il destino della famiglia Munch da lì in poi è infausto. Dei cinque fratelli solo l’ultima nata, Inger, avrà un destino felice.
Il padre, medico, soffre per tutta la vita di disturbi dell’umore passando dal senso di colpa per non aver saputo curare e salvare la moglie, a stati euforici di esaltazione mistica. Proprio per questa oscillazione emotiva continua, Edvard non può certo contare sull’aiuto del padre nell’elaborazione dell’accaduto.
La situazione peggiora ulteriormente quando, all’età di quattordici anni, Edvard perde per la stessa malattia della madre anche la sorella tanto amata, Sophie. Questo secondo lutto si va a sommare al primo creando un vuoto incolmabile per il giovane Edvard. La solitudine, la tristezza e l’angoscia sono il bagaglio della sua infanzia. Però questo periodo porta con sé anche una risorsa inestimabile: la sua sensibilità ed intelligenza emotiva, doti che probabilmente gli hanno permesso di sopravvivere. Passerà buona parte della sua vita impegnandosi in un lavoro psichico di elaborazione e trasformazione del lutto attraverso la pittura.
Non va certo meglio per gli altri due figli: Laura si ammala di una grave malattia mentale in giovane età, il fratello Andreas muore nel 1895 pochi mesi dopo essersi sposato. Sembra quasi che la felicità sia negata a questa famiglia. La malattia, la pazzia e la morte sono i temi che Edvard dovrà elaborare per recuperare un senso nel vivere.
Nel 1889 Edvard vince, grazie alle sue doti artistiche, una borsa di studio a Parigi. Lascia la casa paterna, divenuta sempre più stretta e logorante, per trasferirsi nella capitale della cultura europea. Proprio mentre lui è a Parigi, viene raggiunto dalla notizia della morte del padre. Un ulteriore lutto si va ad aggiungere ai precedenti e, nonostante il rapporto fosse molto conflittuale, emerge una profonda tristezza in lui.
Tutte le vicende fin qui narrate vanno a formare il serbatoio dell’immaginario di Munch. La memoria è la fonte della sua creatività, una memoria che deve essere recuperata per potersene riappropriare, per non subirla passivamente. Così descrive la sua arte “Non dipingo mai ciò che vedo, ma ciò che ho visto”. Edvard è stato un bambino troppo solo di fronte alle tragiche perdite della sua infanzia, non comunicabili e non elaborabili; da adulto deve in qualche modo trovare un canale per esprimerle e per farci pace.
La sua arte, così lontana dalla rappresentazione della realtà oggettiva, non viene subito capita. A Berlino partecipa ad una grande mostra in cui viene letteralmente stroncato dalla critica, tanto che per lo scandalo la mostra viene chiusa. Edvard non si scoraggia e prosegue nel suo percorso di vita e di artista, consapevole della sua posizione: “La mia pittura è, in realtà, un esame di coscienza e un tentativo di comprendere i miei rapporti con l’esistenza. È, dunque, una forma di egoismo, ma spero di riuscire grazie a lei, ad aiutare gli altri a vedere chiaro”. Gli anni berlinesi sono artisticamente molto prolifici per Munch, dipinge in questo periodo il suo capolavoro: L’urlo.
Un elemento importante nella vita di Munch è il rapporto con le donne, sempre molto conflittuale. Conoscerà in Norvegia Tulla Larsen, esponente della “bohéme” di Oslo, che diventerà sua compagna per alcuni anni. Il rapporto si conclude tragicamente, con un colpo di revolver al culmine di una lite furibonda, che colpisce Edvard alla mano sinistra amputandogli un dito. I sentimenti di Munch per le donne sono sempre stati molto ambivalenti, oscillando tra l’attrazione e la paura di essere inglobato. Sentimenti comprensibili se si pensa alle due donne più importanti della sua vita, la madre e la sorella Sophie, che, loro malgrado, lo hanno abbandonato in giovane età.
Al termine del soggiorno a Berlino, la condizione psicologica di Munch peggiora notevolmente. A seguito di una crisi psicotica, dovuta anche alla dipendenza dall’alcol di cui soffriva, Edvard decide di entrare in clinica per essere curato. Grazie a questa decisione inizia il suo percorso di cambiamento. Questo è probabilmente uno dei passaggi più importanti della vita di Munch: tocca il fondo, ma trova dentro di sé e attraverso il percorso di cura le energie per rialzarsi. Dopo otto mesi in casa di cura, fa ritorno in Norvegia seguendo i consigli del suo medico, il dott. Jacobson.
Finalmente Munch può godere di un periodo di maggiore serenità. Questo cambiamento è evidente anche nei suoi quadri: ai temi abituali si affiancano elementi nuovi e più vitali, i colori si fanno più vivaci e le pennellate più leggere. Questo è un periodo positivo anche grazie ai riconoscimenti artistici che iniziano ad arrivare, in patria così come all’estero. I suoi quadri vengono finalmente compresi e venduti, la sua condizione economica migliora notevolmente.
La serenità di Edvard è comunque sempre una condizione fragile e precaria, ne è esempio la sua vita affettiva: l’intimità e il coinvolgimento emotivo profondo con una donna lo hanno sempre spaventato. Nell’ultimo periodo della sua vita, dagli anni ’20, decide di ritirarsi a vita privata nella sua proprietà in campagna. Trova la sua condizione ideale nella tranquillità della vita agreste. Morirà ad ottanta anni nel gennaio del 1944.
Cosa ci mostra la storia di questo grande artista?
Non a tutti è data la possibilità di vivere un’infanzia serena e gratificante. Al contrario, per alcune persone i primi anni di vita sono fonte di insicurezza e precarietà. Tra loro, alcuni rimangono intrappolati tutta la vita in una gabbia di sentimenti rabbiosi autodenigratori e distruttivi verso se stessi o verso gli altri. Ma la buona notizia è che molte persone riescono a ricostruire un senso di sicurezza e valore personale sulla base di nuove esperienze di vita e attraverso la scoperta di nuove prospettive. La storia dell’infanzia di Munch potrebbe far immaginare uno sviluppo disastroso, con il costante pericolo della follia, che in effetti più volte egli ha toccato e contro la quale ha dovuto lottare per tutta la vita. Però queste esperienze dolorose hanno prodotto in lui anche altri risultati: dal trauma è riuscito a recuperare una capacità creativa della mente che lo ha poi salvato.
La storia di Edvard Munch racconta come l’elaborazione delle ferite infantili, e non solo, possa passare attraverso diverse strade, uniche e personali. Queste ferite non si possono cancellare come una riga venuta male su un dipinto, ma possono trovare un nuovo significato grazie ai colori e alle pennellate che le circondano.
Quello che ha fatto Munch attraverso l’arte è in parte sovrapponibile a ciò che molte persone ricercano e raggiungono attraverso la psicoterapia: rileggere le proprie ferite per renderle pensabili e per poterne dare un senso.
“La mia arte ha le sue radici nelle riflessioni sul perché non sono uguale agli altri, sul perché ci fu una maledizione sulla mia culla, sul perché sono stato gettato nel mondo senza poter scegliere. Ho dovuto seguire un sentiero lungo un precipizio, una voragine senza fondo. Ho dovuto saltare da una pietra all’altra. Qualche volta ho lasciato il sentiero per buttarmi nel vortice della vita. Ma ho sempre dovuto ritornare su questo sentiero sul ciglio di un precipizio”
(Edvard Munch)
A cura del Dott. Luca Monasterolo
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